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L’amore nella morte: Bousquet e Sampedro

Opera "The self seers" di Egon_Schiele

Dipinto “The self seers” di Egon_Schiele

di Antonio Di Gennaro

Joë Bousquet (1897-1950) e Ramón Sampedro (1943-1998): due autori fondamentali nell’ambito del pensiero esistenziale contemporaneo, pressoché sconosciuti o dimenticati in Italia. Cosa accomuna i due scrittori, l’uno francese, l’altro spagnolo? Entrambi hanno vissuto non solo un’esperienza, ma una condizione di vita tragica. Giovanissimi (Bousquet a 21 anni, Sampedro a 25 anni) rimangono paralizzati. Bousquet, dopo essere stato ferito alla colonna vertebrale durante la prima guerra mondiale, resta immobilizzato dal petto in giù; Sampedro si spezza il collo a seguito di un tuffo in mare e la sua condizione è ancora peggiore: la paralisi è totale, riesce a muovere solo la testa.

Da quel momento, la vita di questi due uomini diventa una “non-vita”, una morte vissuta quotidianamente in un corpo che è la tomba dell’anima. Qui la coscienza resta vigile, sveglia, desta; è il corpo – cioè il nostro legame con il mondo – che diviene una carcassa, una zavorra, un involucro che non risponde più agli stimoli della volontà. In una simile condizione, che ne è del pensiero? Che ne è dell’amore? Che ne è del desiderio? Che ne è della passione? Se è vero che l’amore è il sentimento più potente in grado di farci sentire viva la vita, che vita è la vita di colui che è impossibilitato ad amare, di colui che è recluso, imprigionato, murato nel proprio inutile corpo, nella propria carne inerme, massa ammassata priva di “élan vital” e dunque soggetta a impulsi, fremiti e vibrazioni? È possibile concepire una vita come “pensiero puro” o “puro spirito”? È immaginabile un incorporeo “Io Penso”, in grado di esistere o di far fronte all’esistenza, slegato dal dato empirico o biologico?

Un giovanissimo Emil Cioran (1911-1995), esclude tale possibilità, sin dalla sua opera prima: Al culmine della disperazione (1934), redatta in Romania all’età di 23 anni, a seguito di una intensa crisi spirituale. Cioran scrive: «Come si può concepire la vita al di fuori del corpo, come si può immaginare l’esistenza autonoma e originaria dello spirito?». E ancora, nei suoi Quaderni, il suo diario intimo, stilato a Parigi, innumerevoli sono i riferimenti al tema del “corpo” e della “carne”. Eccone alcuni: «È incredibile come tutto in me, assolutamente tutto, e in primo luogo le idee, derivi dalla fisiologia. Il mio corpo è il mio pensiero, o meglio il mio pensiero è il mio corpo»; «A ogni istante percepisco con un’acutezza di volta in volta fredda o allucinante il non essere della carne» «La carne non è materia; oppure è una materia tragica»; «La mente non resiste al tracollo del corpo»; «È il corpo a suggerirci le nostre dottrine». Oppure, detto con le parole di Jean-Luc Nancy, è possibile affermare che «Il corpo è l’essere dell’esistenza».

Ora, come hanno reagito Bousquet e Sampedro ad un’oggettiva, tragica e irreversibile situazione-limite di scacco, nell’impossibilità di aprirsi al mondo e di relazionarsi ad esso? Hanno vissuto la morte, hanno patito la morte e ne hanno parlato con parole silenti, la propria morte. Tradotto dal silenzio (1941) è uno dei capolavori di Bousquet, tra le vette insuperate della filosofia contemporanea, Mare dentro. Lettere dall’inferno (1996) è la testimonianza dolorosa di Sampedro (che scriveva utilizzando una cannuccia attraverso il movimento delle labbra).

Qui non ci riferiamo a due pensatori che pensano teoreticamente, astrattamente “la morte”, che fanno della “morte” un tema su cui ragionare in maniera formale, quasi fosse una “categoria” dell’esistenza, alla maniera di Heidegger o Jankélévitch. Qui ci stiamo riferendo a due autori che hanno incontrato e percepito realmente la morte e l’hanno trasposta, esposta, raffigurata, rappresentata, con le armi spuntate e inoffensive della prosa o della lirica. Bousquet e Sampedro non sono filosofi di professione. Bousquet e Sampedro sono due uomini che sono stati costretti a fare filosofia, a filosofare, per resistere a un dramma interiore inimmaginabile, a un’inquietudine ineffabile, a una ferita lancinante e sanguinante nel profondo dell’anima, per tentare di rinvenire un senso, nel fondo senza fondo dell’abisso della “coscienza infelice”. Ascoltiamo qualche passaggio diretto della loro struggente testimonianza, scaturita spontaneamente dall’Ombra. Scrive Joë Bousquet:

Un uomo disteso, una vertebra rotta. Avvinto al circolo del reale, diventa la fogna della vita di cui era parte appena il giorno prima; si vede, incarna lo schifo di un individuo che comincia da se stesso, è la presenza reale di ciò che l’esistenza più non conosce. Quale altro sentimento può nutrire se non la paura di continuare a campare? È ignobile sopravvivere quando non si è più l’immagine di nulla.

Più di tutti io sono incatenato. Il corpo è la mia prigione e il pensiero stesso mi forgia le catene. […] Se il privilegio di essere amato mi è stato tolto, è con i colori di un desiderio intatto che il mio pensiero mi rappresenta la creatura alla quale tanta sventura mi strappa.

Ora sono qui, ho vergogna del mio essere. Per un uomo come me è vergognoso amare.

Voglio amare, amare fino a non riconoscermi più. Voglio vedere la mia vita negli occhi di una donna che sia capace di porre il mio amore al di sopra della vita.

Ah! che il mio amore sia reale o che io diventi anch’io un sogno! Non esiste un dolore comparabile a quello di amare invano.

Sarebbe bello che una donna lo capisse, finalmente: i miei libri sono fatti con le rovine che il mio silenzio contiene.

La filosofia di Joë Bousquet è una filosofia dell’amore assente, strozzato, soffocato, elemosinato. È una filosofia che ci parla di “Lei”, che non c’è mai, costantemente lontana, proiettata nella fantasia, relegata alla sfera onirica e ideale: «Lei è il cielo della mia nascita sulle acque della mia carne»; «Io sono ciò che lei dimentica». Lei è la figura femminile, la donna in carne ed ossa, immaginata e sognata di notte, quando è l’inconscio a parlare. L’Eros non corrisposto, infranto, frantumato, caduto in frantumi (non ricambiato nel proprio anelito d’amore), comporta la morte dell’anima. È quella che lo psicanalista Peter Schellenbaum definisce “la ferita dei non amati”. La stessa tragica Stimmung (tonalità emotiva), di desiderio inespresso e represso, la ritroviamo in Ramòn Sempedro:

So già che non avrò altra occasione di provare quel dolce, misterioso entusiasmo che provano i nostri sensi quando qualcuno ci accarezza gli occhi, le labbra e tutto il nostro essere. Quando qualcuno ci sussurra teneramente “ti amo”. So che non avrò più la possibilità di sentirmi dire dalla vita che mi ama attraverso l’essenza di una donna.

E ancora nelle poesie Solo per questo e La vita è sogno:

Mi espanderò tanto per poterti accarezzare / che tornerà atomi invisibili la mia carne mortale / e quando senti, senza sapere perché, un tremito di passione / sarà perché ti avvolge, anche se non lo comprendi, / questo amore ideale. // Da quando ho visto i tuoi occhi, / ricordi quando li ho guardati l’ultima volta? / non sono tornati a chiudersi da quell’istante gli occhi miei, / ti vedo in sogno, / eppure mi vergogno ad accarezzarti con le parole / e non capisco bene perché. // Solo per questo, solo per questo voglio morire, / perché mi vergogno di sognarti, e so come mai: / perché sono un uomo e tu sei donna.

Non avvicinarti, donna misteriosa, per conoscermi, /è sogno la vita più che concretezza. / La tua voce è per me qualcosa di irraggiungibile, la donna, la speranza / quella che porta nell’animo ogni poeta: la perfetta bellezza. // Quando ti avrò vicina sarai ormai solo volgare materia. / Sì, sarai più umana, più vera, sarai infine reale, / ma saranno finiti i miei sogni di poeta pazzo, / perché sono umano solo quando sto nel mio mondo irreale. // Quando sarai al mio fianco non sarai più la mia musa; / sarai l’irraggiungibile con la tua mano tesa, / quella mano che io non riuscirò mai a stringere. / E il tuo braccio sarà il testimone che accusa / chi se lo merita, che non è così che va, / la vita! Non è così!

Come è possibile notare, quando si è impossibilitati ad amare qualcuno, quando il corpo è la tomba dell’anima, quando l’anima non “plana”, ma è inchiodata a terra in un involucro di carne di cui non si ha percezione e controllo, si desidera – più di ogni altra cosa – la morte. La morte diviene l’unico rifugio per estirpare una “vergogna” immanente, la “vergogna” di essere restati in vita, di essere ancora al mondo. È qui la radice profonda del pensiero: nella sofferenza, nel dolore, nella scissione, nella lacerazione, nella tribolazione, nella via crucis, che non prevedono il riscatto o la redenzione. Quel che resta, parafrasando Ungaretti, è soltanto un grido sommesso di Pietà: «Non ne posso più di stare murato / Nel desiderio senza amore»; una pietà laica, disperata e inconsolabile, la quale – per dirla col poeta Roberto Carifi – «cerca rifugio nella notte / massacrata da gente che non sa l’amore».

Napoli, 04 Maggio 2020


Articolo tratto dal sito Sovrapposizioni

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